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Il Casino dell'Aurora Pallavicini

 
 

 

 

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Rassegna-spettacolo musica e teatro:
"Roma '86, incontro tra Oriente e Occidente"
26 agosto - 17 settembre 1986
 »  Il giardino magico di Jon Hassel
di Flaviano De Luca. "Il manifesto"
  Dai campanelli di un gregge registrati a Maiorca ai canti di una danza dei pigmei, dalle percussioni tribali nordafricane a quelle rituali dell'arcipelago indonesiano. Amalgamando alla meglio questi frammenti etnici con lunghe sequenze alla tromba, martedì sera il musicista americano Jon Hassell ha portato nello splendido giardino dell'Aurora di Palazzo Pallavicini il fascino e il mistero di suoni futuristici, possibili e lontani: la musica del Quarto mondo.

ROMA. Qualche anno fa, quando venne in Italia per la prima volta, Hassell suonava accovacciato alla maniera indiana con due grandi palme di plastica alle spalle quasi a voler creare una situazione esotica, un'atmosfera in qualche modo terzomondista. Stavolta invece l'ambiente del concerto era già di per sè carico di suggestioni. Con un palco basso montato davanti la facciata bianca del Casino dell'Aurora e le sedie raggruppate al centro del giardino ricco di alberi antichi, fiori e fontane. In silenzio quasi religioso più di 300 persone hanno seguito il concerto, timorose sia di applaudire che di infrangere l'etereo flusso sonoro emanato dal trio.
Sulla scena, infatti, una piccola squadriglia si muove con abilità tra strumenti e aiuti elettronici di ogni genere. Hassell utilizza una tastiera, la mixing consolle, e un distorsore a pedali mentre i suoi accompagnatori trafficano allegramente e molleggiandosi sul palco. Richard Horowitz ha un paio di sintetizzatori uno sull'altro da cui provengono supporti armonici e Jay Deane (un pelato dagli ottimi trascorsi con gli Indoor Life) saltella tra tamburi trasparenti e drum machine con memoria che, con un semplice colpo, producono un'intera gamma di suoni preregistrati. Tutti i musicisti indossano le cuffie (per evitare riverberi ed echi) fornendo allo spettatore l'impressione di trovarsi in una piccola stazione spaziale musicale o in un laboratorio sonoro del futuro.
«Spesso penso a me stesso - dirà poi Hassell in un breve incontro - nel ruolo di un direttore di un film con tre attori protagonisti che agiscono all'interno della struttura della mia storia. Ai due musicisti sono stati assegnati i ruoli di supporto armonico e ritmico, a me la spontanea orchestrazione dei suoni acustici ed elettronici con il continuo controllo di quello che accade».

Partono lunghi brani ipnotici con un andamento che potrebbe sembrare quasi casuale se non fosse evidente che Hassell segue il leggio, è una partitura elettronica inventata chissà come. Uno stile rigoroso fatto di mutazioni minime ma continue, ricamando momento per momento con la tromba sul sottofondo e producendo quel caratteristico suono sinuoso e tremolato, moltiplicato spesso da un echoplex e spesso dilatato a lungo sulla scena ben oltre i soffi di Hassell nello strumento. Un'azione musicale che ingloba stimoli etnici differenti e parte da suoni cosiddetti congelati (circuitizzati digitalmente in modo da essere ripetuti infinitamente). Il fine principale, come nelle culture asiatiche, è quello di creare un clima, di colorare un'ambiente, di esplorare a fondo uno stato d'animo, di entrare nelle pieghe dell'individuo.

Del resto nel passato del trombettista di Memphis, con studi classici di conservatorio nell'adolescenza, ci sono due personaggi diversi ma entrambi fondamentali. Uno dei sovrani dell'avanguardia contemporanea americana, La Monte Young, con cui Hassell ha collaborato dal'69 al '75 al Theater of Eternal Music gli ha trasmesso l'amore per le strutture armoniche ripetitive e il maestro Pandit Pran Nath che l'ha introdotto allo studio del Raga, delle antiche composizioni indiane basate sui gruppi di note e sui continui ornamenti.
«II raga è una musica che offre una chiave per penetrare nella cultura nordafricana e asiatica - spiegherà ancora Hassell - e ha grande importanza nella formazione di note e melodie. Con il raga ti vengono spontaneamente semplici composizioni e gli altri passaggi chiamati da qualcuno decorazioni e da altri improvvisazioni».

Tra verdi siepi e vialetti di ghiaia del giardino dell'Aurora si materializzano i fantasmi del passato e del futuro, passioni primitive e avventure intergalattiche, il sogno fantastico e solenne di un viaggio oltre i confini delle culture africane e asiatiche verso un'inafferrabile ma possibile altro mondo sonoro. Un magma seducente e totale che sommerge anche emotivamente l'ascoltatore con visioni differenti ma tutte convergenti in un esperanto musicale che vuole fondere tutte le diverse esperienze in un prodotto universale. Non c'è compiacimento o ironia in questo metodo, si punta al sodo, alla sincerità, alla trascendenza.

Il concerto, è vero, non svela nulla di nuovo sulla personalitè del musicista e sullo stato della sua ricerca sonora che pure agli inizi «concettuali» della sua carriera, nel '70, aveva suscitato scalpore con una installazione sonora nel Connecticut chiamata Avvertimenti Fondamentali. Venti piccoli oscillatori elettronici a pile, ognuno con una pulsazione differente, erano stati seppelliti nel terreno e avevano incominciato a mandare i loro «peep» ai passanti da sottoterra. Poi erano stati attaccati a degli aerostati a elio e mandati a emettere segnali nella stratosfera infine erano esplosi e con dei piccoli paracadute erano tornati verso terra diffondendo i suoni per un'area di circa 50 miglia.

Giovedì 28 agosto 1986

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